giovedì 2 giugno 2011

RECENSIONE: Noi credevamo



Titolo:
Noi credevamo
Italia, 2010
Cast: Luigi Lo Cascio, Francesca Inaudi, Toni Servillo, Luca Zingaretti, Edoardo Natoli, Andrea Bosca, Luigi Pisani
Sceneggiatura: Giancarlo De Cataldo, Mario Martone
Durata: 170'

Angelo (Andrea Bosca), Domenico (Edoardo Natoli) e Salvatore (Luigi Pisani) sono tre ragazzi del Sud che decidono di reagire alla repressione borbonica dopo i moti del 1828, affiliandosi alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini (Toni Servillo).
Questa scelta li porterà a Parigi, entrando nel circolo di Cristina di Belgiojoso (Francesca Inaudi), nutrendo una coscienza politica, arrivando al tentativo di uccidere Carlo Alberto, fino all’insuccesso dei moti savoiardi del 1834.
Travolti dagli eventi, i tre compagni avranno un destino differente che li segnerà tragicamente: Salvatore, popolano, avrà un destino infausto per mano del nobile Angelo, ormai votato all’azione violenta ed esemplare che lo reputa un traditore.
Attraverso cinque episodi si assisterà al destino dei giovani rivoluzionari, immersi in uno spirito di sacrificio, clandestinità, pene detentive e omicidi, ma soprattutto un forte senso di disillusione.
Domenico è il più idealista del gruppo, e una volta diventato adulto (Luigi Lo Cascio), sarà il testimone degli eventi storici che sfoceranno nel Risorgimento, fino all’Unità di Italia.
Due ore e cinquanta minuti per raccontare quarant’anni di storia, un progetto ambizioso per farci capire un’Italia oggi bistrattata, ma un tempo così amata da chi voleva una vita libera dall’oppressione.
L’Italia ritorna in questa occasione a essere un crogiuolo di dialetti, di conflitti tra Nord e Sud, di disparità sociali tra la classe nobiliare e quella popolana (che soccombe con l’uccisione di Salvatore il patriota proletario ucciso dal suo compagno Angelo, nobile di lignaggio, ma povero di etica).
Loro credevano di vivere un’Italia migliore. Loro credevano di vincere i soprusi e l’attanagliamento dei regimi totalitari. Loro credevano di cambiare l’Italia, di dissipare le disuguaglianze tra Nord e Sud (che ancora oggi persistono), ma si sono trovati in mano il fallimento di un progetto che animava molti italiani.
Passato e un pizzico di presente si mescolano ed è sconfortante constatare che l'Italia è un paese nato con un'anomalia genetica, con problematiche mai risolte nel corso dei secoli, facendo risultare vano il sacrificio di molti ragazzi che speravano, sognavano e soprattutto lottavano.
Martone analizza gli eventi dei moti carbonari, dell’attentato a Napoleone III, gli anni della detenzione subita dai patrioti, soffermandosi su Mazzini e mettendo sullo sfondo Garibaldi, tralasciando totalmente Cavour, le cinque giornate di Milano, lo sbarco dei mille e l’unificazione dell’Italia, preferendo invece mostrare lo stivale italico un anno dopo tale conquista.
Martone non fa una summa, né un bigino scolastico, ma si concentra su questi eventi per mostrare la voglia di cambiare di questi giovani trasformatasi in forza distruttiva e violenta, frutto della disperazione, degli errori commessi e della sofferenza della mancanza di libertà, sacrificata in nome di qualcosa, quel qualcosa che doveva far cambiare in meglio il proprio paese.
Se dal punto di vista narrativo è ineccepibile, Martone manca nella tecnica: lontano anni luce alla regia di ampio respiro di Luchino Visconti, o del più contemporaneo Giuseppe Tornatore, il regista napoletano crea una messa in scena di stampo teatrale, girata purtroppo con i mezzi di una fiction (accentuata da habituè del genere come Luca Zingaretti e Guido Caprino), tale da far pensare di essere perfetta per un progetto parallelo per la televisione, come aveva fatto Marco Tullio Giordana per Sangue pazzo e Roberto Faenza con I viceré, anche per renderlo più esaustivo dal punto di vista storico.
Fortunatamente però non si assiste a un riassunto, anzi, la materia trattata è ricca, appannata però da questo stile di regia che tende a riprendersi verso l’ultima parte con l’uso di macchine a mano e carrellate, conferendo finalmente la giusta azione consona agli eventi narrati.
Ottima comunque la ricostruzione storica curati i costumi e le scenografie, peccato però per la regia così statica.
L’azione infatti è ridotta ai minimi termini, per lasciare spazio a campi lunghi che mostrano la bellezza dell'Italia, e i lunghi dialoghi ricchi di ideologia politica e sogni infranti, che però non annoiano.
Mario Martone comunque è un ottimo direttore di attori e infatti è un film totalmente retto sulle spalle dei protagonisti, tra cui spicca un intenso Luigi Lo Cascio, così efficace nell’esprimere la forza delle sue ideologie e il suo totale sconforto e sofferenza una volta arrivato il fallimento. Francesca Inaudi è il personaggio femminile di spicco, la sua Cristina di Belgiojoso è resa con un’anima pasionaria, in contrapposizione ad Anna Bonaiuto nelle vesti di Cristina divenuta ormai una donna matura, ormai disillusa e riappacificata con i propri demoni.
Buona prova di attori per i tre giovani Natoli, Bosca e Pisani che danno la giusta dose di incoscienza ai loro patrioti, così come Toni Servillo crea un Mazzini sofferente e reazionario.
Noi credevamo è l’epopea di una grande sconfitta, ma allo stesso tempo la rappresentazione di una generazione fulgida di rabbia, forza e vigore che ha lottato per far prevalere i propri diritti. Da vedere per ritrovare il rispetto per una patria che ha conosciuto il sacrificio e l’idealismo, valori purtroppo oggi dimenticati.

Voto: 7,5

A.M.


Nessun commento:

Posta un commento